Affinchè lo sport sia considerato educativo, è necessario che promuova esperienze funzionali per gli atleti. Il gioco, la partita, la gara diventano esperienze di vita, se hanno un significato per la persona. In questo senso sia le famiglie che le società sono chiamate a costruire un pensiero efficace per la crescita dell’atleta. Ma cosa succede se famiglia e società sportiva non si incontrano? Cosa accade cioè quando la famiglia corre verso obiettivi esasperati o quando la società non riesce a gestire i bisogni dell’atleta che ha davanti?
Cosa si attendono i genitori dai figli nel fare sport
Nella mia esperienza di allenatrice e volontaria, ma anche nella mia vita professionale, realizzo spesso che quando le famiglie inseriscono nello sport i propri figli, anziché avvenire un’incontro tra i due sistemi, si assiste ad un vero e proprio scontro, e questo purtroppo, a discapito dell’atleta. Racconterò, attraverso la condivisione di alcune storie, che l’origine di questo insuccesso può accadere per alcune sottovalutazioni da parte della famiglia, o da parte delle società sportive.
Denise
Denise ha 9 anni ed è figlia unica. E’ molto brava a scuola e i suoi genitori stravedono per lei. All’età di 4 anni la iscrivono a ginnastica ed ora, seppur molto giovane, è una brava agonista. Denise inizia a fare sport perché la sua famiglia vuole che si tenga in movimento, che si innamori di una disciplina nella quale diventare brava, e perché no, che un giorno possa diventare il suo lavoro.
Dopo il primo anno i genitori di Denise si appassionano allo sport della figlia, sono sempre in palestra e partecipano animatamente alle gare. Dopo i primi insuccessi però, iniziano a chiedere colloqui ai dirigenti della società, danno consigli tecnici sulle attrezzature informandosi sui prezzi e sulle schede tecniche.
Durante le gare giudicano i giudici, anche davanti alla figlioletta, giustificandola per gli errori commessi. Intimano all’allenatrice di frequentare dei corsi avanzati e propongono di affiancarle un’altra allenatrice più quotata. Denise affronta la palestra con una certa ansia e, vista la situazione, la società convoca i genitori. Vengono dichiarate le reciproche difficoltà di collaborazione e dialogo.
L’allenatrice esplicita con i genitori i nuovi obiettivi per Denise: divertirsi, diminuire il numero di gare per permetterle di vivere con più calma gli allenamenti, favorire situazioni di gioco di gruppo, visto che lo sport individuale spesso non promuove la socialità (necessaria a 9 anni!). L’allenatrice chiede una nuova modalità di presenza durante le performances della bambina: ad ognuno il suo posto! I genitori sugli spalti, gli atleti con gli allenatori in campo.
Vista la perplessità dei genitori, la società fissa un appuntamento di monitoraggio per il mese successivo, chiedendo ai genitori di osservare gli sviluppi della situazione.
LA FAMIGLIA: i genitori hanno investito molto sulle prestazioni della figlia, un po’ meno sull’equilibrio del suo sviluppo psico-fisico. La bambina cresce con l’acqua alla gola, cercando sempre maggiori risultati, non assapora il presente e le gioie dello sport.
LA SOCIETA’: è capace di fermarsi davanti alle richieste continue dei genitori. Fa fronte comune, non lascia sola l’allenatrice, ma la sostiene incentivandola a creare un progetto di vita su Denise. I dirigenti non cadono nei ricatti dei genitori, né tantomeno allontanano la famiglia, ma la aiutano a ridimensionare le loro richieste nei confronti della figlia. Nasce un progetto educativo condiviso.
L’INCONTRO: la famiglia viene guidata a rivalutare le modalità con cui si approccia allo sport. In questo modo la società agisce sulle dinamiche familiari, innescando dei conseguenti cambiamenti sul ruolo dei genitori e sulla relazione che loro stessi instaurano con la figlia.
Il messaggio che la società sportiva comunica è: trattiamo la bambina come tale, non come una campionessa, non come un adulto. L’interesse degli adulti che le gravitano intorno è farla crescere in un sereno equilibrio; dal momento che la famiglia sembra minacciare tale serenità, la società sportiva interviene e sostiene.
Cosa si attendono i genitori dai figli nel fare sport
Alberto
Alberto vive con la mamma, il papà e un fratello più piccolo. Per molti anni la sua famiglia ha preferito non offrire ai figli alcuna attività extra familiare, ma ora sia accorge che il più grande “ha bisogno di altro”. Alberto si iscrive così ad una squadra di calcio, coronando quello che da sempre è stato il suo grande sogno: giocare a pallone.
A settembre inizia nei Giovanissimi ma aimè, l’esperienza da subito non appare semplice. Alberto è un po’ goffo, poco atletico, ha 13 anni e il gruppo in cui entra si conosce già da tempo. I compagni lo deridono per la sua lentezza, lo sfidano sulle cose che lui non ha mai provato, gli assegnano subito il compito di “porta borracce”. Alberto è escluso, il gruppo lo ha isolato, il suo allenatore non gli fa giocare neanche una partita, e alle volte non viene inserito neanche in allenamento. Alberto si chiude, a casa racconta poco e dopo tre mesi, decide di abbandonare.
LA FAMIGLIA: vorrebbe che il ragazzo sviluppasse un fisico atletico, imparasse a destreggiarsi nella vita (doti tattiche), entrasse in relazione con gli altri, imparasse a gestire la sua impulsività e facesse gioco di squadra.
LA SOCIETA’: non aveva bisogno di Alberto. Il gruppo era già affiatato, i ruoli già definiti. Alberto rappresenta una distrazione per la squadra e non apporta nessuna ricchezza alla società. La superficialità dell’allenatore rispecchia l’assenza della società sportiva.
LO SCONTRO: Alberto è stato inserito senza nessun dialogo preliminare tra la società e i genitori. Le aspettative della famiglia per questo, sono rimaste latenti, inespresse, tanto quanto sono rimasti impliciti gli obiettivi dell’allenatore.
Alberto ha iniziato la prima attività sportiva della sua vita SOLO. Non è stato inserito, non è stato accompagnato poiché la società non ha previsto un percorso di inserimento e di conoscenza. In effetti mano a mano che si manifestavano, i bisogni di Alberto non sono stati accolti, custoditi e rielaborati. Sono stati letti come “difetti” o “disagi” e non come bisogni legati all’adolescenza (accettazione, appartenenza, confronto…), pertanto lui è risultato inadeguato.
Cosa si attendono i genitori dai figli nel fare sport
Scontri e incontri dovuti alle occasioni da creare, al buon senso dell’agire. Viene da chiedersi a questo punto. E’ corretto che l’atleta sia il ponte tra la sua famiglia e la società, che sia lui cioè incaricato di trasportare in campo ciò che la mamma e il papà desiderano per la sua crescita?
E’ in grado il ragazzo, l’atleta, il minore, di dare significato alle esperienze che vive in palestra e di usare ciò che sperimenta per la sua crescita personale? Forse serve un’inversione di rotta e una sfida nuova: è la società sportiva che si deve porre come un ponte tra l’atleta e la famiglia, e tra l’atleta e la sua crescita personale.
La società che conosce chi ha davanti, segue nei traguardi e nelle difficoltà, anno dopo anno, i piccoli atleti che crescono. Ne conosce le situazioni familiari, i punti di forza e di debolezza anche negli ambiti non strettamente sportivi (amici, scuola ecc..). L’allenatore si prodiga per esserci. Sa intervenire e sa aspettare. Permette all’atleta di consegnargli le sue difficoltà, riesce ad effettuare le scelte non solo in virtù del bene del gruppo, ma anche per il bene del singolo.